L’idea di questo articolo nasce durante la visione di “Rising Phoenix”, un documentario distribuito da Netflix che racconta la storia dei giochi Paralimpici attraverso gli occhi di chi li ha vissuti sulla propria pelle.
Quella di cui vogliamo parlare oggi è si una storia di disparità e discriminazione ma non tra uomo e donna, a cui siamo ormai ben abituati, bensì tra ciò che viene definito “normale” e ciò che, invece, viene definito “anormale” e dell’impatto che ha avuto nel mondo dello sport durante il secolo precedente.
In “Rising Phoenix” gli atleti paralimpici ci vengono presentati come supereroi, persone che “hanno subito una tragedia e a cui non è stato permesso avere successo” ma quelle che poi vediamo scorrere sullo schermo sono scene di vittoria, anzi di rivincita. Molto suggestivo, a tal proposito, il riferimento all’immagine della Fenice (che tra l’altro da anche il titolo al documentario) l’animale mitologico che ha la capacità di controllare il fuoco e di rinascere dalle proprie ceneri dopo la morte – “l’araba radiosa che vive, brucia, muore e rivive!”
Lo sport per disabili nasce dalla volontà di Sir Ludwig Guttmann, un neurologo tedesco naturalizzato britannico, che dopo essersi trasferito in Inghilterra durante il nazismo decide di farsi carico di un compito molto delicato: aiutare i soldati con lesione spinale nella rieducazione al movimento, riabilitazione e, soprattutto, nella re-inclusione in società come “cittadini utili alla vita quotidiana, in grado di lavorare ed essere autonomi.”
L’obiettivo del dottor Guttmann era quello di includere lo sport nel processo di riabilitazione sfruttandolo per donare ai suoi pazienti un fisico forte che li avrebbe aiutati nell’affrontare le attività della vita quotidiana.
Proprio nel “Centro nazionale di ricerca sulle lesioni del midollo spinale” di Stoke Mandeville (Inghilterra), di cui Guttmann era direttore, nasce il primo movimento sportivo di atleti con disabilità e viene organizzata la prima gara tra sedici ex soldati paralizzati.
Nel 1948, contemporaneamente all’apertura dei Giochi Olimpici di Londra, vengono inaugurati gli “Stokemandeville Games”, la prima edizione di quelli che saranno destinati a diventare, qualche anno più tardi, i giochi paralimpici.
La prima edizione ufficiale sarà, infatti, quella di Roma 1960, prima città in assoluto ad ospitare i “giochi paralleli”: è solo l’inizio di una lunga storia fatta di una escalation crescente di successi.
Lo sport, come tanti altri ambienti, non è affatto estraneo alle disparità tra uomini e donne ma ciò che rende le Paralimpiadi speciali, fuori dal comune, non è la storia di quale sesso sia il più o meno forte o la lotta per la parità nei diritti e riconoscimenti, bensì il fatto che non c’è disparità tra i sessi: i giochi paralimpici “creano eroi”, a prescindere da tutto e tutti! Ciò che colpisce, appunto, sono le immagini di donne e uomini, unici nelle loro disabilità, che si cimentano negli sport più disparati, in squadre miste, con l’obiettivo di cambiare la percezione del mondo di ciò che viene considerato “normale”.
In “Rising Phoenix” sono nove i giovani atleti che raccontano le loro esperienze ed emozioni nel ricostruire la storia dei giochi ma, rimanendo coerenti con il filo conduttore di questa serie di articoli dedicati al “Marzo Rosa”, ci soffermeremo sulle figure femminili che si alternano tra una scena e l’altra.
Partiamo dalla giovane nuotatrice australiana Ellie Cole che, in seguito all’amputazione di una gamba a causa del cancro, si avvicina al mondo del nuoto come parte del suo programma di riabilitazione e nel 2003 decide di intraprendere la carriera sportiva come atleta professionista.
Alle Paralimpiadi di Londra 2012 – l’anno della svolta per i giochi in quanto per la prima volta ricevono un riconoscimento da parte del pubblico mai visto in precedenza – guadagna, nonostante una recente ricostruzione alle spalle che l’aveva destinata all’abbandono del nuoto, quattro medaglie d’oro stabilendo anche un record mondiale, e due di bronzo su otto gare totali. E, quattro anni dopo, a Rio viene premiata con due ori, tre argenti e un bronzo salendo sul podio al termine di ogni gara a cui prende parte.
Da Rio a Pechino, torniamo indietro di qualche anno, precisamente nel 2008, in una Cina che fino ad allora aveva considerato la disabilità come un qualcosa su cui tacere e da tenere nascosto e sul nostro schermo appare una ragazza intenta a coprire i segni che la poliomielite ha lasciato sul suo viso: Cui Zhe, Powerlifter. Cui Zhe intraprende la sua carriera di atleta professionale di Powerlifting quando viene convocata nella squadra della Nazionale e, da questo momento in poi, diventa una figura dominante in questa disciplina, acclamata da molti come una delle migliori powerlifters della sua categoria. Sul podio ai giochi di Pechino 2008 e Rio 2016 con l’argento, il suo sogno è quello di guadagnare l’oro paralimpico.
Dalla Cina ci spostiamo nella Russia degli anni Ottanta, terra natale di Tatyana McFadden. Affetta da spina bifida, una malattia congenita che le impedisce di camminare sin dai primi anni di vita, viene abbandonata dalla madre naturale in un orfanotrofio che, per mancanza di fondi, non riesce a comprarle nemmeno una sedia a rotelle ed è costretta a spostarsi con l’aiuto delle braccia. L’incontro con la sua famiglia adottiva segna un punto di svolta nella sua vita. In seguito al trasferimento negli USA, Tatyana viene spronata ad intraprendere vari sport per rafforzare la muscolatura dal nuoto alla pallacanestro su sedia a rotelle fino ad approdare all’atletica leggera.
A 15 anni il suo debutto ai Giochi Paralimpici di Atene dove inaugura il suo medagliere con un argento e un bronzo nella corsa su sedia a rotelle.
Al di là dell’essere un’atleta eccezionale Tatyana McFadden è anche figura di spicco nella battaglia sociale per la parità dei diritti e l’inclusione dei disabili nelle gare sportive. Alla causa legale intrapresa dalla famiglia McFadden nel 2008 va, infatti, il merito dell’approvazione dell’Atto per l’Eguaglianza degli studenti con disabilità nell’atletica e nel fitness (chiamato anche “Legge Tatyana”) da parte del Maryland, primo Stato ad esigere che ogni scuola garantisse i medesimi programmi di educazione fisica e opportunità atletiche per tutti gli studenti.
Infine, chiudiamo la nostra rassegna giocando in casa. Torniamo in Italia, dove troviamo un volto super noto dello sport paralimpico: Beatrice Vio, meglio conosciuta come Bebe Vio.
Bebe inizia la sua carriera di schermitrice molto presto, a soli cinque anni e mezzo ma, all’età di undici anni, viene colpita da una meningite fulminante che la porterà all’amputazione degli arti superiori e inferiori. Dopo poco più di anno dalla malattia riprende l’attività sportiva decidendo di tornare al suo primo amore, la scherma, grazie ad una speciale protesi progettata appositamente per impugnare il fioretto.
A soli quattordici anni, viene scelta tra i tedofori delle olimpiadi di Londra 2012 e da qui inizia il lavoro di preparazione a Rio 2016 dove porterà a casa l’oro nel fioretto femminile.
Forza, coraggio, tenacia e grinta sono le qualità di questa giovane donna che ha deciso di seguire il suo sogno e lavorare sodo per raggiungere la meta diventando punto di riferimento per molti perché, come dice lei stessa: “se sembra impossibile, allora si può fare!”